Vorrei essere privata!

Il mondo finanziario ha orientato le imprese anche di medie dimensioni a quotarsi, ma molte di esse oggi vogliono uscire dalla Borsa valore.

E’ un desiderio che si sta facendo strada con grande intensità tra le imprese quotate presso le borse valori. Nell’ultimo decennio il mon­do finanziario ha orientato le imprese, non solo le grandi ma anche quelle di media dimensione, a quotarsi presso un mercato regolamentato. Queste impre­se, una volta quotate , mettono a dispo­sizione del mercato una parte del loro capitale sociale – detto capitale flottan­te – ossia quella parte di capitale socia­ le disponibile per l’attività di negozia­ zione (attività propria ai mercati finan­ziari con un particolare riferimento al settore dell’investment banking). I titoli delle imprese quotate rappresentano la materia prima con la quale gli opera­ tori finanziari attivi sul mercato borsi­stico operano. Da questa materia prima deriva l’attività di compra-vendita di ti­ toli (propria del cosiddetto ‘mercato se­condario’), di costruzione di fondi o al­ tri strumenti strutturati legati a una cer­ta tipologia di titoli in un settore di ri­ferimento piuttosto che in un altro.

Ovviamente il mondo delle imprese, conscio delle attese del mondo finan­ziario, ha, a sua volta, delle aspettative derivanti dal processo di quotazione presso una borsa valore. La principale aspettativa delle imprese è di poter re­ perire capitali per sostenere i propri pia­ ni di crescita. Entrano successivamen­te in linea di conto parametri quali: no­torietà, visibilità, accessibilità, presen­za globale ecc.

Raccogliere fondi per le imprese. Que­sta è la funzione primordiale delle bor­se valori. Dal 2008 dobbiamo costatare che le borse valori, di fatto, non adem­piono più alla loro funzione primordia­le. Purtroppo, non adempiono neppu­re alla loro funzione secondaria, che è quella di proteggere i risparmiatori so­prattutto gli azionisti individuali (chia­mati anche piccoli investitori , grazie alla liquidità ed alla determinazione tra­sparente dei prezzi dei titoli, inducen­do così questa fascia d’investitori a ri­nunciare ad investire in borsa. Se con­sideriamo inoltre che il 40% delle tran­sazioni è realizzato da computer in gra­do di elaborare sofisticati algoritmi, non è sorprendente costatare che detti in­vestitori disertino le borse valori.

Ma non è tutto. I capi azienda di im­prese quotate sono confrontati con altri due fattori, di fronte ai quali si ritrova­ no spesso in una situazione di passività obbligata, quasi vittime di un sistema dove difficilmente possono assumere un atteggiamento pro-attivo.

  • Il primo fattore è di carattere soggettivo.­ Trattasi dei rumori che i merca­ti divulgano su un’impresa (positivi o negativi). Questi rumori rendono difficile guidare un’impresa nei mer­cati odierni e possono condizionare, a volte pesantemente, i rapporti dell’impresa con gli stakeholders, ov­vero quei soggetti influenti verso l’im­presa, ivi inclusi clienti e fornitori.
  • Il secondo fattore è di ordine ogget­tivo ma indipendente della conduzione d’impresa messa in atto dal capo azienda. Si tratta del rischio di conta­gio di un cattivo andamento genera­le dei mercati. Situazione alquanto at­tuale. È sufficiente osservare quante imprese, in particolare sui mercati eu­ropei e statunitensi, sane, con risul­tati positivi e prospettive interessan­ti vengano penalizzate da una cattiva gestione di bilancio degli Stati (dalla zona Euro agli Stati Uniti) che si ri­percuote sulle borse valori oltre che sull’andamento delle valute. Nella si­tuazione odierna il virus è ancor più contagioso perché è da trent’anni che i maggiori Stati occidentali mancano di rispettare le regole di base per una situazione di bilancio sana: conti in equilibrio ed indebitamento zero o prossimo allo zero. Potrebbe sem­brare una posizione drastica, ma si tenga presente che il pagamento de­ gli interessi prodotti dal debito pub­blico rappresenta per quegli Stati una delle tre prime voci di costo, e che quei capitali potrebbero essere im­piegati a maggior beneficio per la col­lettività, dal sistema impresa al sin­golo individuo.

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Come reagiscono le imprese quotate a questa situazione che perdura dal 2008?
In particolare quelle imprese sane con buone prospettive future che vedono il valore del loro titolo svalutato dal catti­vo quadro generale e dunque non più in grado di esprimere il valore reale dell’impresa?
Numerose imprese procedono al riac­quisto delle proprie azioni. Specialmente le imprese che hanno mezzi propri im­portanti. Soltanto sul mercato statuni­tense dal 2008 ad oggi le imprese han­ no speso 1.300 miliardi di dollari in que­ste operazioni di riacquisto.
L’abbassamento del valore del titolo permette all’impresa di rientrare in pos­sesso di titoli a buon prezzo, per poter­ li negoziare in momenti e a condizioni migliori, di agire su un rialzo del corso del titolo azionario quando il riacqui­sto di quote avviene mediante offerta pubblica e, non da ultimo, di sottrarre il proprio capitale sociale all’azione de­ gli speculatori ovvero di coloro che non hanno a cuore il valore dell’in1presa nel tempo, ma solo il valore del titolo che detengono in portafoglio per un lasso di tempo contenuto.
Altre imprese, in particolare quelle di medie dimensioni quotate, optano per un delisting, ossia un’uscita  programmata dalla quotazione presso la borsa valore. Uscita sovente difficile, com­plessa ed onerosa. In Francia, il presi­dente del sindacato delle Imprese di medie dimensioni
(Asmep-Eti), Yvon Gat­ ta, azionista con la sua famiglia dell’im­presa Radiali, esorta i membri della sua associazione a non entrare in borsa, pe­na non poterne uscire!

Osserviamo inoltre numerose im­prese private di medie dimensioni met­tere in atto dei piani di crescita per ac­quisizione indirizzandosi verso medie imprese quotate che devono confron­tarsi con un andamento del proprio ti­ tolo fortemente ribassato e mezzi pro­pri limitati o scarsi.

Molte di queste medie imprese quo­tate annoverano compagini sociali che comprendono un socio di natura finan­ziaria (che può essere una holding di partecipazione finanziaria o un fondo di private equity).

Le ragioni della presenza di un socio finanziario sono generalmente da ri­cercarsi nelle passate esigenze di capi­tale a sostegno di un piano industriale oppure di un avvicendamento dei sog­getti alla guida dell’impresa. Nel caso in cui tali soggetti siano parte del ma­nagement esistente e non abbiano dun­que disponibilità sufficienti per esegui­ re l’operazione in autonomia (le cosid­dette situazioni di Management Buy Out), intervengono soci finanziari a sponsorizzare l’operazione. Il ruolo del socio finanziario a sostegno della cre­scita è solitamente benefico per l’im­presa, perché esercita un’azione disci­plinante sulla realizzazione del piano in­dustriale. Le operazioni che vedono coin­volto un socio finanziario generalmen­te si assomigliano tutte per orizzonte temporale di permanenza nell’impresa (da 4 a 7 anni), per modalità di uscita dal capitale sociale e per la spiccata pro­pensione a massimizzare il capitale in­vestito all’atto dell’uscita di scena. Ol­tre alla classica uscita per cessione di quote a terzi, gli anni 2004 – 2007  han­no visto un elevato numero di imprese con un socio finanziario scegliere la via della borsa valori come way out prefe­renziale. Sono proprio queste, oggi, le imprese sotto assedio. Quelle entrate in borsa in un ciclo di mercato ad alta va­lorizzazione, rimaste prigioniere dalla crisi finanziaria del 2008 e con la pre­senza di un socio finanziario che deve forzatamente trovare una via d’uscita (è ancor più vero quando il socio è un fon­do d’investimento che ha una durata di vita limitata nel tempo).
L’acquisizione di queste imprese da parte di una nuova proprietà industria­le, da un punto di vista tecnico, sfocia il più delle volte in una cosiddetta Offer­ta Pubblica d’Acquisto (Opa) obbliga­toria. Una siffatta Opa permette all’acquirente di raggiungere più agevol­mente il quorum minimo d’adesione fis­sato dal legislatore e di avviare un pro­cesso di delisting che ricondurrà l’im­presa nel suo alveo naturale, ovvero una proprietà forte e identificabile.
Nel frattempo le imprese private, e principalmente le Pmi, sono in grado di attrarre gli investimenti in capitale di rischio, attingendo risorse finanziarie dal mondo del private equity, che da sempre monitora i settori più promet­tenti dell’economia e che oggi orienta i

“Nella fase di congiuntura economica attuale è meglio reperire i capitali necessari allo sviluppo d’impresa fuori dai mercati regolamentali

suoi investimenti ancor più vigorosa­mente verso le Pmi, preferendole alle imprese di dimensioni maggiori. Se i tecnicismi nelle modalità di ingresso dei soci di natura finanziaria sono rimasti pressoché immutati nel tempo, assi­stiamo invece ad una drastica riduzio­ne del numero di operazioni di acquisto a leva (Lbo o Leverage Buy Out, ope­razione dove gran parte dei capitali ne­cessari all’acquisizione dell’impresa è il risultato di un prestito finanziario con­cesso da parte di un istituto finanzia­rio, che grava sull’impresa con un ovvio effetto negativo sulla sua posizione fi­nanziaria), così come ad un mutamen­to delle modalità di avvicendamento da soci finanziari a soggetti industriali, at­traverso canali di negoziazione privata, e dunque al di fuori del perimetro bor­sistico.

Anche le holding di partecipazioni in­dustriali rappresentano un importante investitore per le Pmi private. Non di­mentichiamo infine gli investitori indu­striali che utilizzano sapientemente que­sto periodo di abbassamento di valore delle imprese per lanciarsi in piani di crescita per acquisizione.

Per concludere, se è vero che la bor­sa è soggetta a cicli negativi che ne con­dizionano tutti i suoi attori, incluse le aziende quotate, in periodi di crisi le im­prese private (soprattutto le Pmi, per­ ché più flessibili ed in grado di adattar­si velocemente ai mutamenti economi­ci) sono maggiormente attrattive per gli investitori. Il limite di questo mercato non regolamentato è che resta difficil­mente accessibile ai piccoli investitori, quegli azionisti individuali che rappre­sentano, raggruppati, ingenti somme di denaro.

E questo è un vero peccato, perché questi piccoli azionisti individuali, infor­mati ed attenti, sarebbero fortemente interessati ad investire in attività d’im­presa innovative. Denotano una prefe­renza verso le imprese radicate nella lo­ro zona geografica di appartenenza, un forte attaccamento all’impresa ed al pro­dotto, un sano orientamento verso ren­dimenti ragionevoli e stabili nel tempo (in contrapposizione a performance stel­lari ma di breve durata, frutto di effe­rata speculazione, cui si accompagna peraltro un altrettanto spinto rischio di futura svalutazione). In sintesi questi piccoli investitori hanno un approccio ‘etico’ all’investimento. Il mondo dell’in­termediazione finanziaria dovrà neces­sariamente tenere conto del consolidarsi di questo atteggiamento, ed offrire, in futuro, prodotti e strumenti più tra­sparenti.

Nell’attesa che tali nuovi prodotti sia­no accessibili ad un pubblico più vasto, le imprese private si rivolgono a quei soggetti privati di maggiori dimensioni (definiti correntemente ‘investitori qua­lificati’), in grado di sostenere investi­menti più importanti (e rispondere co­sì ai bisogni delle imprese) pur mo­strando le attitudini virtuose appena de­ scritte.

Da queste considerazioni si evince chiaramente che nella fase di congiun­tura economica attuale è meglio repe­rire i capitali necessari allo sviluppo d’im­presa fuori dei mercati regolamentati. Le possibilità di successo sono di gran lunga maggiori e la tempistica minore.

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